4 novembre 2009

Tristi tropici per la morte di Claude Lévi-Strauss

“Con il passare degli anni, ogni giorno di più provo la sensazione di usurpare il tempo che mi resta da vivere e penso che niente giustifichi più il posto che occupo ancora su questa terra», aveva dichiarato Claude Lévi-Strauss quattro anni fa, quando non ne aveva ancora novantasette. L’ultimo grande maestro del nostro tempo, l’autore di Tristi Tropici, del Pensiero selvaggio, del Crudo e il cotto, ma anche di quel meraviglioso compimento che è Guardare, ascoltare, leggere, il pensatore che ha segnato il Novecento mettendo in questione non solo la centralità della cultura occidentale, ma anche quella dell’uomo nel sistema vivente, forse voleva che, in quel sistema, la sua vita durasse cent’anni, ma non uno di più. Ne avrebbe compiuti centouno tra meno di un mese. È morto, forse non casualmente, nella notte dei Morti, l’unico rito precristiano e tribale che si celebri ancora oggi in tutto il mondo.

Avevamo festeggiato il suo centesimo compleanno, il 28 novembre dell’anno scorso, pubblicando una parte dei dialoghi avuti a Parigi anni prima. In quelle conversazioni lo avevamo interrogato anche sulla morte. La vedeva molto vicina, non se ne preoccupava affatto. Non gli poneva problemi metafisici, considerava troppo metafisico perfino Seneca, con la sua idea che la vita sia una meditatio mortis, una perenne preparazione alla morte. Lévi-Strauss, contemporaneo dell’esistenzialismo, andava più in là. La sua morale ultima, la sua dichiarazione di fede, era: niente è.

L’aveva ripresa da Montaigne, la ritrovava nel buddismo, di cui era stato curioso all’inizio della sua parabola intellettuale. Naturalmente, aggiungeva conversando nella grande casa parigina piena di libri e di antiche maschere tribali, per vivere bisogna fare come se le cose avessero un senso. Ma criticava perfino Sartre, che sosteneva la necessità di dare un senso alle cose. Sartre pensava che un senso alle cose lo si possa dare veramente, mentre Lévi-Strauss credeva che non ci si arrivi mai. Esistono solo due scelte: «O vivere la vita nel modo più soddisfacente possibile, e allora comportarsi come se le cose avessero un senso pur sapendo che in realtà non ne hanno nessuno: restare lucidi, lasciarsi portare, andare all’avventura. O altrimenti ritirarsi dal mondo, suicidarsi oppure condurre un’esistenza da asceta tra le foreste e le montagne».

In fondo, da giovane, aveva scelto la seconda opzione, quando nel 1935, dopo la laurea in filosofia, presagendo che la carriera accademica non gli sarebbe riuscita facile, era andato a vivere fra le tribù indie dell’Amazzonia e del Mato Grosso. Era stato compagno di studi di Simone de Beauvoir e Merleau-Ponty, ma la sua mente, polimorfa e multidisciplinare fin dall’infanzia, dedita alla pittura e alla musica quanto alla scrittura e alla lettura, era intollerante alle sistematizzazioni. Fu una duplice sconfitta al Collège de France a dargli quella straordinaria libertà di scrittura che fa di Tristi Tropici, dedicato al lungo soggiorno tra i Nambikwara, uno dei capolavori filosofici del Novecento.

La mente di Lévi-Strauss era votata al bricolage, analizzato nel Pensiero selvaggio, o al collage, dove oggetti e pensieri non contano per se stessi, ma per le reciproche relazioni. È lo spirito dello strutturalismo: tutto è linguaggio, dalla poesia al formicaio, alla Sonata.

I manuali parlano di lui come del fondatore dell’antropologia strutturale. Eppure, molte volte ha detto di sentirsi sollevato dalla fine della moda strutturalista degli Anni 70. La radice dello strutturalismo andava per lui cercata nel Settecento di Chabanon, un musicologo dimenticato che aveva anticipato Saussure. Anzi, aveva aggiunto, «andrei perfino oltre, fino ad affermare che i veri inventori della linguistica strutturale sono stati gli Stoici».

Questa capacità, da vero strutturalista, o da vero sciamano, di stabilire per ogni oggetto di studio relazioni e connessioni istantanee e multiple, gli derivava anche da immense letture. Conosceva la cultura classica quanto quella tribale, sfruttava contemporaneamente, sincronicamente e per così dire sinfonicamente le intuizioni dei filosofi greci e i sapienti castelli di carte dei filosofi tedeschi. Ma non voleva «neppure dare l’impressione che il suo lavoro fosse una filosofia». La sua intimità con la poesia era così grande da permettergli di percepire, quasi per sinestesia, i suoni come colori, di confrontare le Vocali di Rimbaud coi neri di Manet e questi con la «tastiera sincromatica» di un dimenticato autore del XVIII secolo, padre Castel. Lévi-Strauss vedeva nero il futuro ma traeva luce dal passato. Era avido di qualsiasi informazione gli venisse da questo sconfinato territorio, ormai così poco frequentato dalla modernità da renderlo quasi più selvaggio delle giungle del Brasile. Ad avvicinarci, a Parigi, era stata la sua curiosità per il mondo bizantino, un’Atlantide sommersa di cui aveva colto l’immensità, e di cui andava interrogando i riti, i miti, i colori.

«Odio i viaggi e gli esploratori»: così aveva scritto all’inizio di Tristi Tropici, citando Madame de Staël. Era naturalmente un paradosso. Un antropologo non può non essere un viaggiatore, viaggia per i continenti, per le culture, per gli argomenti, per le epoche. Ci dimostra quanto sia illusoria la differenza tra la civiltà e ciò che chiamiamo lo stato selvaggio. Ci spiega che anche dietro la più sofisticata delle usanze si nascondono tabù insondabili e paure ancestrali. Si potrebbe dire: che ne sarebbe di tutte le nostre incertezze, senza Lévi-Strauss? Per fortuna, attraverso il suo esempio e i suoi libri, Lévi-Strauss, anche se la scorsa notte dei Morti se ne è andato, varcando l’ultimo confine del suo viaggio, compiendo l’ultimo dei suoi riti di passaggio, resta con noi per sempre. Silvia Ronchey La Stampa del 4/11/09.

Ricordo una conversazione parigina, nel luglio del 2006, con Maria, la sua compagna Mano e la nostra amica comune Rosa. Si era fatta sera, eravamo in un giardino nei pressi degli Champs-Élysées e Maria, laureata in filosofia, commentava il relativismo culturale dicendo che era stata una sciagura e che aveva portato a gravi compromessi. Concordavo e le ricordavo, come esempio, le donne infibulate che partorivano in Italia le quali, per rispetto (Sic!) della loro cultura , venivano ricucite. Le dicevo anche che in realtà il relativismo culturale era stato frainteso perché non portava alla cancellazione dei valori ma, proprio in virtù del fatto che i valori non sono né innati né universali, suggeriva che i valori ci esprimono ci distinguono perché tra una molteplicità scegliamo proprio quelli e non altri, che, insomma, se i valori non sono uguali per tutti questo responsabilizza ancora di più le nostre scelte. Solo le religioni, la chiesa che pretendono di avere una ragione divina e dunque super umana hanno da ridire sul relativismo culturale e ne diffondono infatti la vulgata sciocca, cioè che il relativismo, nel dire che tutti i valori sono relativi e dunque uguali, porta a concludere che non esiste valore alcuno. E' un po' come quei cretini che in nome della democrazia accettano qualunque idea...
Maria mi guarda e mi dice che, anche se concorda con la mia lettura del relativismo, in realtà, quello filosofico e antropologico dice proprio quel che io criticavo. E mi cita Lévi-Strauss che aveva detto, in Tristi tropici, che nessuno può davvero capire una cultura se non ne fa parte e questo, secondo lei, precludeva ogni vero confronto culturale e isolava ogni gruppo di valori, di civiltà, in monadi autoreferenziali e non comunicanti il cui risultato era proprio che tutto è relativo.
Basta leggere le ultime affermazioni di Lévi-Strauss per rendersi conto del suo grande errore.
Dire che la vita è un barcamenarsi vivendola credendo che abbia un senso mentre un senso non ce l'ha. Dire che nulla è.
Non si rendeva conto Lévi-Strauss che è proprio il cercare un senso nella vita a non avere senso che attribuiamo al mondo inorganico un senso che solo la nostra vita autoconsapevole ha non già i quanto senso ma in quanto vita... E che invece di acettare la nostra fine con serenità spaventati dalla consapevolezza della morte una morte che non ha senso cerchiamo la stessa consapevolezza nel resto del mondo, organico e inorganico, e, non trovandola, perché non c'è, dubitiamo della nostra. Dimenticandoci che se nulla davvero fosse non potrebbe nemmeno essere il nostro dubbio, la nostra negazione e che quindi ci stiamo contraddicendo mentre lo diciamo.
Il senso che manca e che ci attanaglia al punto tale da volerlo estendere all'intero universo (almeno quel 5% che conosciamo, essendo il restante 95% fatto di materia oscura...) è quello della nostra morte. Siamo sempre lì.
E' inutile che Strauss dicesse di non avere paura di morire. Quando diceva che nulla è stava pensando all'assurdità della sua morte e al fatto che se le stelle sono indifferenti alla morte umana allora le stelle non esistono e nemmeno la vita.
Certo vivere per sempre sarebbe bello. Io come tanti (ma non tutti...) lo vorrei. Ma vaffanculo! Finché ci sono me la godo e dopo chissenefrega sarò morto.
Spero solo che la mia morte non sia dolorosa o miserabile, ma dignitosa, come quella di Frances. Un dormire andandosene. Pensando alle stelle che campano miliardi di anni ma non sanno nemmeno di esistere.
Ma Strauss naturalmente, era molto di più e c'è un'altra frase che quoto dal sito de L'unità con la aule vorrei chiudere questo post su di Lui
Non ho suggerimenti da dare a nessuno. Mi limito a ricordare che esistono due grandi virtù: la tolleranza e il rispetto per la diversità. È una lezione che abbiamo appreso a un prezzo molto alto e che non dovremmo mai dimenticare. Claude Levi Strauss






matrimonio e famiglia

Dimmi, perché lo stilema
il sintagma e l’idioletto
compaiono col fonema
in ogni tuo articoletto?
Perché ami tanto Jakobson
la metonimia e il significante
Claude Lévi-strauss and Sons,
il diacronico e il commutante?
Perché t’angoscia la differenza
tra fonetica e fonologia
E non puoi vivere senza Barthes e la semiologia?

(Ennio Flaiano, L’uovo di Marx. Epigrammi, satire, occasioni)

Facile Mina, un brano al giorno (5)



Sentite il fiato nel ritornello...

Ancora sul crocefisso a scuola

A me ha sempre fatto impressione. Mi ha dato sempre un senso di tristezza. Non tanto (o non solo) per quello che concretamente rappresenta, un uomo morto sulla croce, dicono così i cristiani nevvero?, ma per la tacita imposizione e la colonizzazione culturale che rappresenta. Mi sono sempre chiesto che cazzo c'entra un crocefisso a scuola? A Scuola si fanno tante cose che la Chiesa, fosse per lei, non permetterebbe. A scuola si discute, ci si confronta, si critica, si ragiona, si dimostra, si studia, si impara. La chiesa invece non fa niente di tutto questo. La chiesa impone, la chiesa crede, la chiesa è. Mi hanno sempre fatto ridere quelli che da dentro la chiesa cercano di riformarla, di renderla più democratica. La chiesa è irredimibile. E' un coacervo di superstizioni e patriarcali ingerenze. E' un luogo dove un gruppo di pazzi e di pazze  durante la comunione compiono un gesto Teofago. Si magiano il corpo (del figlio) di dio e bevono il sangue (del figlio) di dio. Non è una cosa simbolica, ma concreta. Anzi Galilei per aver messo in discussione la natura concreta della transustanziazione ha rischiato il rogo...
Ecco cos'è il cristianesimo.
Tutto quello che è costruito sopra, quei valori che anche io stesso, mio malgrado seguo, partono da qui. E' da qui che dovremmo ripartire  per parlare di religione e cristianesimo.  Che poi l'80% delle persone non creda o non si renda conto della concretezza della comunione e si viva la comunione secolarizzandola come un gesto simbolico non cambia lo stato di fatto.
Noi siamo i primi a essere razzisti quando critichiamo (giustamente ma etnocentricamente) gli africani che compiono ancora i loro auruspici uccidendo galline ma non battiamo ciglio quando mangiamo e beviamo il corpo e il sangue di Cristo.
La grande invenzione culturale dell'uomo (della donna), il simbolico, ci frega in maniera eclatante. Ci fa sentire meno primitivi degli altri quando siamo i peggiori di tutti. Quelli che se magnano il loro dio pur di scampare alla morte.
Perché di questo si tratta. Altro che di salvezza spirituale! Nessun'altra religione lo fa.
Per cui non mi rompete i maroni!
La Chiesa va trattata come ogni altra organizzazione privata, come Casa Pound e Gens Romana che non ami, vorresti che non ci fosse, ma che democraticamente, finchè c'è gente che le frequenta, non puoi cancellare.
Ma non mi venite a parlare di Cultura e di radici Cristiane.
La cultura cristiana parla di creazionismo, è misogina, sessista, sessuofoba e omofoba. E chi la segue lo è altrettanto che se ne renda conto o no. Che lo voglia o no. E ora che il crocefisso esca dalle aule e torni nelle chiese posti tristi, angusti e bui nonostante le opere d'arte che belluinamente cercano di impreziosirle.

Amen.

Finchè l'Emilia va


Un documentario di Roberto Anselmi, Emiliano Dario Esposito, Greta Filippini, Claudia Moretta, Cristoforo Spinella e Andrea Tornese, diretto da Daniele Coluccini

Un viaggio alla scoperta di quello che è rimasto dell'Emilia rossa. Partendo da un paese del reggiano, Cavriago, che ha ancora un busto di Lenin. Ma con la piazza del comune intitolata a don Giuseppe Dossetti.
Tra un passato leggendario e un presente incerto, vecchi nemici (politici) che ora sono una cosa sola, e nuovi protagonisti che bussano alle porte dell'"isola felice". Orietta Berti e OfflagaDiscoPax, la svolta della Bolognina e un'identità da ricostruire. Vicende minime e grandi storie di una regione che ha ancora qualcosa da dire a tutta l'Italia.

Eccovene un piccolo assaggio



Per vedere il resto non vi rimane che recarvi 
Lunedì 9 novembre
alle ore 20.30
alla Casa del Popolo di Tor Pignattara
a via Benedetto Bordoni 50


per qualche info in più potete cliccare qui
bello essere
quello che si è anche se si è
poco
pochissimo
niente


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